24 Lug. 2004

Il moralista e l'epistemologo: dialogo sulla felicità

– Moralista – Anche io ho smesso di credere, come scrive M. Houellembecq nel suo ultimo romanzo, che questa società sia ancora in grado di produrre felicità. E’ come se ci venisse detto: la felicità l’abbiamo finita, mi spiace, posso darle qualcos’altro? Non so, un desiderio, un’immagine, un sogno, un ricordo che non le appartiene, così che possa goderne nei momenti difficili. La felicità, come esperienza, si è sganciata dal nostro essere sociale per diventare un ripiego, una colpa, una fuga, un sogno vuoto. E’ uscita dalla dimensione delle domande collettive, posto che ce siano mai state, per entrare nel regno delle risposte individuali.

Epistemologo – Ma d’altronde la felicità è sempre, in qualche modo, la “mia” felicità. La felicità quindi, come l’esistenza, non è un concetto, ma un vissuto. E come tale non possiamo, in senso stretto, parlarne.

Moralista – Ne stiamo parlando

Epistemologo – No, stiamo parlando della possibilità di definirla, è diverso. Ci siamo posti in un territorio “neutro” per un poco.

Moralista – Io posso darti esempi di felicità: quando ero bambino, giocavo in cortile in primavera, con gli altri bambini del vicinato. Mia mamma mi chiamava al tramonto, per la cena, ma io volevo restare ancora, volevo assaporare la giornata che finiva e fare progetti con i miei amici, e sentire la stanchezza che lottava con la voglia di correre, e ancora e ancora…Ecco, io ricordo la mia felicità. Ne ho un’immagine nitida. La risento dentro me come un colore…

Epistemologo – Questo è interessante: della felicità possiamo parlarne solo al passato. Lo aveva già annotato, quasi di sfuggita, T. Adorno: la felicità si declina sempre al passato, come un “essere stati felici”. C’è bisogno di un po’ di distanza per fare in modo che un’esperienza si solidifichi e sia possibile pensarla. Solo in questa dimensione essa è possibile per il pensiero. E’ possibile crearne un simulacro nella mente.

La felicità, quindi, non appartiene al presente. Nel presente può esserci il godimento, la speranza, la quiete, ma non la felicità. Il suo raggiungimento è un fatto di archeologia, ed è legato alla nostra capacità di ripegarci su ciò che non siamo più. Mi accorgo ora che la conclusione iniziale, ovvero: “la felicità non è un pensiero ma un visstuo” si è traformata nel suo opposto. La felicità è solo un pensiero, una meditazione da archeologi della memoria.

Moralista – E’ vero, è come se la sua ricerca fosse sempre all’indietro: è un lavoro da storici, non da geografi.

Epistemologo – Qui entra in gioco un altro fattore importante che riguarda la nostra memoria. Noi non siamo in grado mai di riprodurre, se non in parte, i nostri “vissuti”. Ciò che riproduciamo è una loro versione ricostruita, come una anastilosi delle nostre esperienze.

Moralista – Anastilosi?

Epistemologo – Si, ovvero un processo di “ricostruzione” delle parti mancanti a partire dalle parti visibili. Un accomodamento, ecco. Una costruzione compatta che riemerge dalle rovine dei nostri ricordi. Ora, la domanda è: questa costruzione è falsa? Perché la ricostruzione non è mai arbitraria: segue le linee portanti della nostra “tonalità affettiva”, per dirla con Heidegger. È come un film restaurato a cui mancano dei fotogrammi. Il lavoro di restauro non restituisce l’originale, in senso letterale, ma coglie lo spirito della cosa in se stessa. Il senso di felicità o di infelicità è “il senso” di questi ricordi, veri o falsi che siano.

Moralista – Quindi la nostra storia è sottratta al vero e al falso? Ma che razza di conclusione. Ci sono i fatti, e i fatti restano al di là nelle nostre “tonalità affettive”. E’ di quello che parliamo, e su quello che ci basiamo per avere il senso delle cose. La capanna sull’albero, la ragazzina che amavo, le palle di neve nel prato davanti alla casa…Non li ho inventati. Ma tutto finisce. E oggi non c’è più prato. O meglio, non ci sono più io.

E’ come se la consapevolezza della fluidità del tutto, del nostro essere e non essere, del nostro non esserci più, del nostro cambiare, minasse alle fondamenta la possibilità di un percorso stabile in cui noi stessi ci ritroviamo, ci ricomponiamo. Noi non siamo più quelli di “allora”. Il mondo non è più lo stesso e anche le cose che sembravano più solide si rivelano delle illusioni. In questo contesto di frantumazione, in cui è la dimensione del presente ad avere la meglio su tutto, non è possibile questa “felicità di ripresa”, poiché è impossibile la ripresa. Nelle società più stabili (penso ad esempio alle società contadine) l’agganciamento con la propria storia e con simboli riconoscibili di essa, sedimentati dai rituali, rendeva forse possibile qualcosa di simile alla felicità, ma oggi…oggi domina “l’eterno presente”. Per questo ritroviamo tante tendenze che invitano a “riscoprire le radici”.

Epistemologo – Tocchi un altro tema importante legato allo, chiamiamolo cos’, “spettro semantico” della felicità: quello del “compimento”. Ciò che ci rende felici è in qualche modo qualcosa che ci “completa”. In questo senso ritorniamo al tema del passato. L’essere che vive non è un essere compiuto. E’ un essere monco, legato più al nulla che all’essere: è un vettore che interpreta simboli, ma in questo interpretare risiede la sua insanabile frattura. Solo nella distanza può darsi un simbolo e questa distanza rende impossibile la ricomposizione. La pietra è felice. Il muro è felice. La nostra felicità è quella “pietra” che siamo diventati. Ma quella pietra non siamo più noi: ci limitiamo a guardarla dal nostro bizzarro, instabile, invisibile, punto di osserviaziome. E siamo daccapo.

Moralista – Questo mi ricorda qualcosa…