Note a margine della facoltà di scienze della comunicazione (post provocatorio)

Io non so se gli studenti del corso di laurea che prende il nome, ridicolo e altisonante, di Scienze della Comunicazione (disciplina relativamente nuova nello stravagante panorama di studi del nostro Paese, che si associa ad altre, ancora più bizzarre iniziative accademiche, valga per tutte l’esotico corso di laurea in “comunicazione nella società della globalizzazione”, erogato dalla sempre intraprendente Roma 3) ecco, io non so se questi studenti siano persone felici e soddisfatte. Va bene, forse la felicità non esiste, ma generalmente si prova quantomeno un senso di intima soddisfazione nel vedere un proprio percorso svilupparsi, anche se in mezzo a mille difficoltà e cambi di rotta. Trovarsi all’inizio di una salita e lentamente, con fatica, accostarsi alla vetta.

Ora sembra, a quanto mi è dato sapere, che questa, ed altri tipi di esperienze, vengano d’ufficio negate ai nostri poveri malcapitati. Si, perché non solo non troviamo nessuna imponente salita nel loro percorso ma, anzi, capitiamo piuttosto in un labirinto di stradine che si incrociano in mezzo al deserto. Qualcuna va da qualche parte, qualcun’altra no. Alcune si incrociano, altre sprofondano in misteriosi pantani. Alcune tornano addirittura al punto di partenza. Ci sono i laboratori (urka, i laboratori), e una serie infinita di prove intermedie che dovrebbero tesmoniarci la serietà del bizzarro “percorso”.

Una volta, parlando con una di loro, arrivata ormai alla fine del labiritino, scopro che abbiamo molti autori in comune: Thomas Kuhn, Edgard Morin, Gorge SImmel, eccetera. Solo che la malcapitata li conosce, sì, ma non ne ha mail letta una riga. Ohibò, e allora di cosa stiamo parlando? Mi spiega che non funziona così: loro leggono solo libri che parlano di questi autori.???? Ok ma agli esami dovrete portare dei testi, non so, complementari. Giusto? E poi c’è sempre l’iniziativa individuale, no? E i seminari? Dico, i seminari. E scopro che agli esami si porta, generalmente, a malapena un manuale e una dispensa. Fine.
Insomma, non solo le stradine sono tante e senza indicazioni, ma sono anche corte, e percorrendole, spesso velocemente, si guarda fisso per terra, senza soffermarsi sul paesaggio.

Qualcuno a tale proposito scomoda, spesso a sproposito, la “l’apprendimento a rete”, il rizoma”, l’ipertestualità, l’intetestualità, il mago zurlì, la deriva situazonista, Boges, Calvino, Foucalut, Madre Teresa e il mostro di Firenze. Tutti che ci spiegano che così è meglio, che l’abbattimento dei confini disciplinari, che c’è la “cooperazione all’apprendimento” ed altre, lasciatemelo dire, puttantate. Io vedo solo ragazzi che leggono Pierre Levy e Baudrillard senza aver letto una riga, non dico di Kant, ma neanche di Saussure o Weber o altri padri putativi. Vedo persone parlano di cose che non conoscono senza sapere che non le conoscono. Vedo la lenta cottura di un pane fatto di briciole, e non credo sia un pane molto nutriente.

Qualcuno diceva che chi guarda in basso mentre cammina non inciampa, ma non sa dove sta andando. Chi guarda in alto invece sa dove va, ma rischia di cadere. Personalmente ho sempre preferito cadere.