Jakobson, Shannon e la comunicazione in Rete

Ripartire da Jakobson

A volte, quando parliamo di comunicazione in rete facciamo po’ di confusione, mescolando aspetti tecnologici, di contenuto e di relazione in un tutt’uno che chiamiamo “comunicazione”. In questo modo ci facciamo, forse, sfuggire qualche dettaglio rivelatore che potrebbe aiutarci a comprendere meglio un fenomeno tuttaltro che semplice e dalle molteplici implicazioni.
Per capire meglio il fenomeno vorrei fare qualche passo indietro e riprendere la questione a partire dalle origini; per farlo utilizzerò lo schema inaugurato da R. Jakobson nel 1958, nel famoso saggio Linguistica e poetica.

Sono ovvi i limiti dello schema, innanzitutto per la subordinazione del modello alla teoria dell’informazione “classica”, ovvero, come vedremo più avanti, quella elaborata da Shannon e Weaver, una teoria che, peraltro è oggi considerata superata sotto molti punti di vista.
Va anche detto che Jakobson aveva in mente una domanda precisa quando scrisse il saggio, ovvero: che cos’è la poesia e come possiamo definirla linguisticamente? Tuttavia le suggestioni che in quella sede lancia vanno, fortunatamente, ben al di là della domanda specifica, gettando un ponte teorico che ancora oggi possiamo percorrere per capire qualcosa in più del misterioso intreccio tra contenuto e relazione che si sviluppa nella comunicazione, in rete e fuori rete.
Le funzioni del linguaggio
Seguendo lo schema di jakobson, a sua volta, come dicevamo, mutuato dalla teoria dell’informazione “classica” (le virgolette sono d’obbligo visto che la teoria dell’informazione si sviluppa in ambito puramente ingengeristico e non si è ancora data una analoga teoria “moderna”, ma solo degli ampliamenti interdisciplinari) viene stabilito che, in una qualsiasi comunicazione un mittente utilizza un codice (più o meno) condiviso, per mandare un messaggio ad un destinatario, riferendosi a qualcosa, utilizzando uno specifico canale (v. figura sotto):

schema funzioni del linguaggio jakobson
A questi distinti elementi della comunicazione Jakobson fa corrispondere altrettante funzioni linguistiche, ciascuna con un suo scopo preciso, tutte compresenti, in misura maggiore o minore nel medesimo messaggio. La maggiore o minore presenza di ciascuna funzione presente nella “miscela” individua un particolare tipo di comunicazione ben identificabile, conosciuta e riconoscibile (scientifica, poetica, emozionale, operativa,.)
Prendiamo ad esempio la funzione espressiva, ovvero quella orientata al mittente: è costituita dall’insieme degli elementi che qualificano lo stato emotivo di chi parla (o comunica). Usando una terminologia successiva, essa è costituita dagli elementi non verbali, paraverbali e, nel linguaggio, dalle interiezioni e simili. Dal punto di vista della teoria classica dell’informazione questi elementi non esistono o costituiscono comunque un problema: nella pratica linguistica quotidiana sono invece parte integrante dei messaggi, ne colorano il senso e ne arricchiscono il valore informativo.
La funzione denotativa è quella più classicamente studiata, e naturalmente, quella maggiormente presente nel linguaggio scientifico (per questo si tende a dire che il linguaggio della scienza è chiaro e obiettivo, confondendo a volte logica e retorica). Quando dico “sono stanco”, la mia stanchezza è il contenuto denotativo, e le mie espressioni di stanchezza sono pertinenza della funzione emotiva presente comunque nel messaggio. Per inciso, erano queste il tipo di espressioni studiate da Aristotele e da Kant, e proprio per questo la loro teoria della mente risulta oggi alquanto grezza).
Più interessante la funzione fatica, ovvero tutti gli elementi della comunicazione tesi a stabilire la presenza del “contatto” tra gli interlocutori. Ad esempio, il “pronto” al telefono e così tutte le espressioni che riguardano la relazione in quel momento tra mittente e destinatario. Notiamo di sfuggita come la funzione fatica agisca anche come pura affermazione di presenza di se stessi in un contesto (“eccomi”, “ci sono”, “presente”, ecc).
Ancora, la funzione conativa, riguarda gli aspetti pragmatici della comunicazione, ovvero quelle espressioni che agiscono sul destinatario per spingerlo ad un’azione. Rientrano in questo schema, ad esempio, tutti gli imperativi, i comandi, ecc.
Ok, fermiamoci qui. Tra le tante cose che si possono rilevare in questo schema, vale la pena di citarne almeno una, ovvero che la nozione di valore di verità di un enunciato può essere applicata quasi esclusivamente alla parte governata dalla funzione denotativa (il “qualcosa di cui si parla”), oppure a quella metalinguistica. Le altre funzioni non sono sottoposte a questo principio, con buona pace dei logici e filosofi del linguaggio primo-wiggensteniani.
Bene, perché questo schema ci dice qualcosa su contenuto e relazione in rete? In primo luogo perché scopriamo che la “relazione” si annida anche nel più banale atto denotativo, seppure ben nascosta, magari sotto il contenuto espresso. Ad esempio diciamo al nostro interlocutore una banale frase denotativa, come: “La terra è rotonda” e nel contempo stiamo affermando noi stessi come soggetti in comunicazione, stiamo esprimendo una tensione interiore, stiamo attribuendo un giudizio verso il nostro interlocutore (“stai dicendo banalità”, oppure “quello che dici non ha valore”) e così via. Non si dà comunicazione, anche la più banale, senza la contemporanea presenza di tutte le funzioni del linguaggio.
Il predominio del “discorso” fàtico
Ma questo schema ci dice qualche cosa di più, perché all’interno della comunicazione in rete si è assistito, specialmente in questi ultimi tempi, con l’arrivo della “blogosfera” e di altri spazi di espressione di facile accesso ad un pubblico più vasto di utilizzatori, ad un curioso paradosso, non prevedibile tenendo fermo lo schema Shannon-Jakobson.
In rete si comunica attraverso un computer. Non siamo in presenza che di noi stessi (e a volte neanche quella, troppo concentrati sullo schermo per riflettere). Questo elemento di contesto, che taglia fuori d’ufficio la possibilità di sbilanciarci sulla funzione espressiva o fatica o conativa, sembrerebbe imporre un utilizzo meramente denotativo del mezzo. Del resto le origini del web fanno riferimento proprio a questo utilizzo, dal momento che le intenzioni iniziali dei pionieri del CERN erano di scambiarsi dati scientifici.
E qui sta il punto. Perché, invece che limitarsi a scambiarsi dati scientifici e simili – facendo leva sulla componente denotativa dei messaggi – le persone, in rete, hanno cominciato a fare l’opposto, facendo di tutto per portare in primo piano le funzioni meno adatte al tipo di mezzo, ovvero quelle espressiva, fatica, conativa.
Possiamo citare, a questo proposito, gli studi sulle interiezioni in chat, che cominciano ad fiorire anche in Italia, o possiamo pensare agli indispensabili emoticons; oppure, semplicemente, possiamo osservare la pratica comunicativa nei commenti dei blog dei ragazzi, in cui la maggior parte dei messaggi sono del tipo: “ci sono”, “ci sei anche tu?”, “eccomi”.
Funzione fatica.
L’intreccio tra contenuto e relazione
Insomma, sembra che, in Rete, le funzioni “relazionali” scavalchino la funzione “denotativa”, predominante negli articoli scientifici o giornalistici.
Si ha un bel dire (e l’ho detto spesso anche io…) che “in rete contano solo i contenuti” (formula alquanto vaga e molto potente, che comunque non ha ancora esaurito, a mio parere ,il suo indubbio valore di doccia fredda per i rampanti speculatori della rete). In rete i contenuti sono avvolti come in una calda coperta delle altre funzioni del linguaggio. I contenuti sono relazioni e le relazioni sono contenuti. Questo ci fa capire, a mio parere, due cose:
1) Quando fuori dalla rete, comunichiamo, facciamo una lavoro ben più complesso che calcolare il valore di verità di un enunciato. Lavoro complesso ed irrinunciabile, visto che tale lavoro viene compiuto, a prezzo di difficoltà indubbiamente maggiori, anche in rete.

2) La comunicazione in rete ci ha fatto capire come la funzione denotativa del linguaggio sia povera e di come sia arrivato il momento di prendere consapevolezza in tutti i campi, dalla progettazione igegneristica al marketing aziendale alla comunicazione della scienza, che se vogliamo comunicare dobbiamo guardare a tutte le funzioni in gioco nel nostro linguaggio, senza trincerarci dietro muri divisori (come quello tra contenuto e relazione) sempre più sgretolati.
Le aporie del modello di Shannon
Che cos’è allora la relazione in rete? Cos’è il contenuto?
Prima di affrontare questo aspetto dobbiamo fare un ulteriore passo indietro per cercare di capire cosa c’è di insoddisfacente all’interno del modello usato da Jakobson per identificare le funzioni del linguaggio. Per Jakobson poteva certo bastare quello che era a disposizione alla sua epoca: dopo tutto il suo utilizzo del modello di Shannon-Weaver è solo un pretesto per poter circoscrivere la funzione poetica: in questo senso è anzi particolarmente creativo e permette di gettare una luce sull’utilizzo del linguaggio che sopravvive, ancora oggi allo scheletro del modello.
Tuttavia, se guadiamo al modello stesso, vediamo alcune cose che, già ad un primo sguardo, non ci convincono.
Primo problema: è un modello unidirezionale. L’informazione viaggia in una sola direzione. Certo, può darsi il processo inverso, ma sarà una seconda istanza dello stesso modello, il quale agisce per sua natura usando un messaggio per volta.
Secondo problema: entra in causa l’idea di codice, concetto assai problematico se misurato con l’effettiva pratica comunicativa. Il codice, infatti, se vogliamo usare questo concetto, non è mai qualcosa che assomiglia al codice Morse. E’ piuttosto una “lebenswelt” o, dal punto di vista psicologico, una gestalt, insomma un “tutto” che entra in gioco nell’interpretazione della “parte”. Il codice insomma, se c’è, è un codice “sporco”.
Terzo problema, legato strettamente al secondo: il modello è prettamente sintattico. Non ha a che vedere con i “significati”, ma solo con l’aspetto sintattico dei messaggi. Questo è fondamentale ed è, anzi, l’architrave del modello: i fondatori volevano isolare proprio l’aspetto sintattico, per poterlo così misurare. Paradossalmente è proprio in questo isolamento che troviamo la potenza del modello (infatti così è possibile parlare di “quantità di informazione” ovvero di BIT).
Quarto problema: l’informazione si genera alla fonte. È il mittente che decide cosa comunicare e tutto il problema successivo sarà di decodificare il messaggio originario in maniera opportuna.
Quinto ed ultimo problema: una volta esaurito il suo compito, la fonte diventa affatto inessenziale per la comprensione dei messaggi. Il suo ruolo nell’atto comunicativo è, per così dire vicario rispetto al messaggio in sé stesso, vero protagonista di questo modello, per così dire, “postale”.
Un modello conversativo
Sappiamo che, negli ultimi 50 anni, le tecnologie di produzione dell’informazione si sono basate su questo modello, che per parte sua ha funzionato egregiamente. Quello che non ha funzionato è stato piuttosto il suo trasferimento, tanto ingenuo quanto a suo modo entusiastico, alla comunicazione tout court, trasferimento che ha avuto come esito la cancellazione dal discorso teorico intorno alla comunicazione di aspetti, per certi aspetti, irrinunciabili quali quelli di soggetto, comunità, significato, relazione, interpretazione, cultura. La comunicazione si è, per così dire, disincarnata, reificata all’interno di un discorso meramente tecnico o nascosta all’interno una pratica, per così dire, cieca a sé stessa.
Tralascio di elencare le conseguenze di questa omissione all’interno delle pratiche organizzative (aziende) e didattiche (scuola). Mi limito ad osservare come questa carenza teorica è divenuta ancora più grave con l’arrivo della comunicazione in Rete, poiché è proprio a partire da questo insieme di pratiche comunicative, mediate dalla tecnologia, che si possono, paradossalmente, misurare le distanze rispetto ad una visione puramente “ingegneristica” del fenomeno.
La rete ci costringe, oggi, a guardare con occhi nuovi la comunicazione e a ricomporre il discorso intorno ad essa su insieme di basi che reintroducono ciò che il modello di Shannon aveva, metodologicamente, lasciato da parte. Un numero sempre maggiore di fenomeni (da ultimo i blog) ci costringono a ripensare i termini della questione e ad ammettere, finalmente, che una corretta teoria della comunicazione in Rete non possa ignorare il complesso intreccio tra contenuto e relazione, tra soggetto e cultura/e oltre che ad un’altra serie di fenomeni che, pur esistendo da sempre nella comunicazione tradizionale, in Rete si rendono palesi e maggiormente circoscrivibili. Proviamo a darne una brevissima sintesi.
1) La comunicazione è un processo che si attiva a partire dal destinatario. Nello schema di Shannon è sempre un mittente colui che dà il via alla comunicazione. Prima di un mittente che “spedisca il messaggio” abbiamo un ambiente neutro, privo di qualsiasi movimento interno. Non abbiamo, a rigore, neanche un “destinatario”. Ma chiunque di noi sa perfettamente che non esiste mai alcun atto comunicativo se non per un soggetto che interpreta, agisce e interagisce. E’ nel incontro con un soggetto vivo, attivo e attento che la comunicazione si produce. E’ nell’intersecarsi dei messaggi con il nostro patrimonio di significati che un’informazione trova la sua collocazione. Ed è per questo che è, a rigore, impossibile “misurare” la quantità di informazione, se non in forma meramente “sintattica”.
La comunicazione è il risuonare di echi nella nostra testa, è il nostro continuo interpretare indizi per costruire un senso che non è mai compiuto all’origine. Anche l’idea di origine è problematica: chi ha dato inizio alla comunicazione nella quale sono da sempre immerso e alla quale sento di partecipare da sempre?
Ciò che facciamo, in continuazione, è cooperare alla produzione di significato attraverso al nostra pratica, la nostra relazione e il nostro coinvolgimento con i segni che una comunità mette a disposizione del nostro orizzonte, in maniera intenzionale o meno.
Insomma, Il valore della mia comunicazione si misura nella testa di chi mi ascolta. Al di fuori di questo non vi è alcun atto comunicativo. Ne discende, come ovvio, che la comunicazione è un processo di arricchimento continuo, anche quando sembra che vi sia una “perdita” nel passaggio (come una perdita di segnale nel trasferimento di dati). Certo, in ogni “passaggio” vi è il rischio di deriva, di fraintendimento, di errore. Ma è proprio in questo gioco continuo che è possibile la creazione di significati nuovo, è proprio in questo gioco delle interpretazioni che si costruisce qualcosa che chiamiamo “verità”.

schema modello inferenziale e conversativo della comunicazione

2) Non esiste un contenuto se non a partire da una relazione. Quando comunico non mi limito a trasferire dei messaggi: non c’è nessun messaggio se non nel “corpo vivo” di una relazione piena. Questo era già evidente nel modello di Jakobson, anche se in modo indiretto. Il più banale atto denotativo è comunque una affermazione di sé come soggetto, che richiede un riconoscimento da parte di una comunità di parlanti. Io comunico (qualcosa) a te (di me). Tu rispondi (a me). Anche un messaggio scritto su un muro acquista senso solo se mi raffiguro qualcuno in carne e ossa che agisce e che, in qualche misura, desidera rapportarsi con il suo “lettore”. Quello che è in gioco quando comunichiamo ha a che fare con il senso profondo della nostra identità. Ma questo è proprio quello che succede in Rete dove, in qualche misura, ci rivolgiamo sempre ad una collettività. Il nostro “denotare” si riferisce comunque ad una ipotetica comunità di lettori di cui, in qualche maniera, tiene conto.
3) Non esiste uno scambio di messaggi ma una conversazione permanente. Da quanto abbiamo appena detto discende che non esiste qualche cosa come un “messaggio puro” che fluisce tranquillamente da un mittente ad un destinatario. Questo può forse essere un caso-limite, un esempio da laboratorio, una comunicazione, per così dire” in provetta”.

schema semplificato mittente/destinatario

Ciò che facciamo è invece più complesso, ed investe molti più soggetti contemporaneamente. Ogni nostra mossa comunicativa ha un valore locale all’interno di un contesto più generale, costituito da una sorta di conversazione permanente nella quale, di tanto in tanto, diciamo la nostra. Leggiamo il giornale, parliamo con la vicina di casa, guardiamo la televisione, chattiamo e leggiamo libri. Interpretiamo segni, mescoliamo le nostre credenze, mettiamo in gioco i nostri ricordi dando il nostro contributo all’interno di un processo culturale di costruzione di significati. E lo facciamo in ogni momento. Anche in questo caso la Rete illumina più chiaramente qualcosa che è in atto da sempre.

schema modello conversativo

Insomma, quello che facciamo, quando comunichiamo, non assomiglia per nulla alla decodifica di messaggi: è un continuo interpretare segni a partire dalla nostra esperienza. Tutti questi fatti non nascono con la Rete, ma trovano in Rete il loro più chiaro esempio: in Rete sono io che cerco, che mi muovo, che interpreto e interagisco. La rete non è, in questo senso, un’eccezione ma solo un caso emblematico. Credo che una teoria della comunicazione non possa, oggi, adagiarsi sul vecchio modello trasmissivo: dobbiamo ripartire dalla comunicazione come fatto complesso per rendere conto, in modo adeguato, della comunicazione in Rete.