26 Apr. 2004

Epistemologia dell'autostima

Prendi 110 e lode all’università. Pensiero: li credevo più seri. In azienda ti promuovono e ti danno un aumento: Pensiero: sono riuscito a fregarli ancora una volta. Tutti ti dicono che sei molto, molto, bravo. Pensiero: si ma bravo a fare che? Non mi sembra di fare nulla di speciale. La gente si accontenta di poco. Esci con la ragazza più bella del Mondo. Pensiero: probabilmente deve avere qualche malattia venerea… Scrivi un romanzo che viene pubblicato e riceve un sacco di belle critiche. Pensiero: si ma allora il pubblico è veramente fatto di caproni. Vinci il Premio Nobel. Pensiero: Questi svedesi sono proprio dei vecchi rincoglioniti.

Nel negozio di vestiti la commessa che mastica la gomma ti guarda un po’ male: hai una crisi di pianto all’uscita.

Autostima. Sembra una parola da manuale del perfetto manager, oppure un termine new age. Eppure è un concetto potente. E paradossale. L’autostima definisce il grado di verità che attribuiamo alle asserzioni fatte su di noi, misura il valore che per noi hanno le nostre azioni, determina l’importanza che diamo agli altri.

E’ una lente con cui guardiamo il mondo, una sorta di epistemologia con cui lo conosciamo. Una metafisica influente. E come tutte le metafisiche influenti non è smentita dai fatti, perché i fatti sono possibili solo alla luce di essa. Ecco perché, con una bassa autostima, posso vincere il Nobel e allo stesso tempo sentirmi un cretino perché il portinaio non mi ha sorriso. E a nulla serviranno le opinioni positive degli altri, classificate di volta in volta come patetiche, consolatorie, stupide, finte.

E ora la domanda filosofica: l’autostima ha a che fare con la razionalità? E’ un processo di ragionamento, seppure implicito? O è una cosa irrazionale, in attingibile, immodificabile?
Tutte e due le cose. L’autostima è una epistemologia profonda, una teoria implicita su di sé. Ora, una teoria può essere confermata o smentita dai fatti, ma l’autostima resiste ai fatti. L’autostima se ne frega dei fatti, è una teoria su di sé che conserva un nucleo metafisico, inverificabile.

Tutto questo fa pensare ad una famosa teoria sulla scienza, la cosiddetta “Metodologia dei programmi di ricerca”, formulata alla fine degli ann ’60 da un famoso filosofo della scienza post-popperiano, Imre Lakatos. Per Lakatos una teoria non viene subito confermata o smentita dalle osservazioni empiriche: se così fosse avremmo un continuo susseguirsi di teorie che si creano e crollano subito dopo, e non ci sarebbe scienza.

Diciamo invece che una teoria, come un bambino appena nato, è costituita da un nucleo di supposizioni non verificabili, un nucleo metafisico, una serie di asserzioni accettate convenzionalmente, che viene circondato da una cintura protettiva di ipotesi ad hoc, costruite per farla resistere ai controesempi. In questo modo la razionalità teoria e sperimentale prosegue, sulla base di un nucleo irrazionale. Basta che il nucleo riesca a produrre comunque predizioni positive, che trovino conferma nei fatti.

E purtroppo noi agiamo proprio così: un nucleo profondo (l’autostima) e una cintura protettiva di ipotesi ad hoc, che conservano questo nucleo. Solo che, diversamente dalla ricerca scientifica, noi non possiamo abbandonare questo nucleo per adottarne un altro più “progressivo”. Il nucleo, noi, ce lo teniamo. Possiamo solo lavorare sulla nostra cintura protettiva di convinzioni, cercando di eliminarle a una a una, nella speranza che, prima o poi, il nucleo ceda da solo.