16 Ott. 2007

Collaborare o condividere? Problemi (quasi) filosofici

Si ha un bel dire sull’importanza di collaborare, di condividere la conoscenza, di favorire la partecipazione. Queste cose che ho elencato non sono sinonimi: proviamo a fare un passo avanti e guardare meglio la questione.

Mettiamo che creiate un gruppo su Lotusnotes, o un teamsite su Sharepoit, o un team di progetto su yoo+, o anche un gruppo chiuso su google gruppi. Avete creato uno spazio di collaborazione per un gruppo ristretto di persone, all’interno dell’organizzazione. Ora moltiplicate questa operazione per 10, 100, 1000 gruppi: avete ottenuto una frammentazione dell’organizzazione in cluster di interesse, o in gruppi di lavoro.

Ma, nel contempo, avete anche creato dei silos funzionali, (anche se informali) che non permettono alla conoscenza di fluire in modo fluido tra i diversi gruppi.

Ma questa conoscenza può veramente fluire?

Questo è un tema interessante (uno dei più interessanti degli ultimi tempi su questo tema, a dire il vero, ovvero: quanto la collaborazione è un ostacolo alla condivisione?

Detto in altre parole: quanto è necessario un contesto per permettere ad una conoscenza di circolare? E’ ovvio che un documento o un’informazione hanno una loro storia, legata ad un contesto di scambi tra un gruppo: al di fuori di questo contesto non assumono particolare rilevanza. Se quindi prendo un documento elaborato all’interno di un teamsite e lo porto “fuori”, a disposizione di tutti, l’informazione diventa insufficiente e poco significativa.

Insomma, mentre all’interno dei gruppi si produce in gran parte conscenza tacita, difficilmente trasportabile, negli spazi aperti (ad esempio uno spazio per la modulistica o per la manualistica) si condivide conoscenza esplicita, facilmente decontestualizzabile, ma che non ha una storia di collaborazione alle spalle (almeno in forma visibile). Sembra quindi che il grado di collaborazione sia inversamente proporzionale al grado di condivisione possibile: se le informazioni hanno una storia e un contesto, questa storia diventa un insieme denso e non esplicitabile facilmente.

Quali sono le soluzioni a questo problema? Il dibattito è aperto, e io posso solo dare il mio punto di vista.

I gruppi che elaborano conoscenza tacita sono sempre esistiti, e la creazione di gruppi chiusi non fa che prendere atto di questa situazione, fornendo un ambiente adatto alla collaborazione. Ma, allo stesso tempo esistono pratiche di confine che sono quelle che permettono ai gruppi di apprendere al loro interno e di trasportare conoscenza all’esterno. Esiste sempre la figura che connette, che passa da un gruppo all’altro, l’innovatore, colui che frequenta i “confini” delle comunità. Sono queste figure che fanno da ponte cognitivo alle conoscenze prodotte localmente (Mario che arriva nel suo gruppo in ufficio e dice: ehi, quelli del piano di sotto stanno portando avanti una cosa fichissima. Potrebbe esserci utile. Dopo vado dal mio amico che lavora lì e mi faccio spiegare meglio….).

In una intranet che si rispetti dovrebbero convivere queste diverse pratiche legate alla conoscenza: gruppi chiusi che producono collaborazione e conoscenza tacita e contestuale, gruppi aperti che permettono alla conoscena esplicita di circolare (pensiamo ad un forum interno sui problemi di Excel: in questo caso la conoscneza è meno contentuale), e infine, una pratica di “lavoro sui confini” che permette a diverse figure una partecipazione periferica ai diversi gruppi chiusi, in modo da poter fare da ponti cognitivi.

Inoltre non è detto che le conoscenze tacite e contestuali derivate dalla collaborazione non possano, ad un certo punto, trasformarsi in conoscenze esplicite: alcuni prodotti finali possono essere messi a disposizione di tutti poiché hanno raggiunto un livello di esplicitazione tale da poter essere condivise. In questo caso la collaboraizone diventa una sorta di incubatore contestuale per la condivisione.

Di tutto questo (o quasi) si discute in questo articolo, pubblicato da StepTwo.

Buona lettura (e buona riflesisone).