26 Set. 2005

Il knowledge management siamo noi

Quando si parla di knowledge management, spasso, si sconfina in definizioni surreali come questa. Eppure non è affatto una cosa complicata. Peraltro è sempre esistita all’interno delle organizzazioni moolto, ma molto prima dell’arrivo del web e delle teorie “cool” sull’apprendimento organizzativo. Per spigarmi meglio voglio raccontarvi una storia autobiografica, che risale all’epoca del mio impiego come operatore in un noto call center italiano.

Ebbene sì, prima di diventare l’allegro teorico delle intranet che tutti conoscete mi sono sciroppato 4 (dico quattro) anni come operatore con la cuffia in testa. Non voglio aggiungere nulla, ad eccezione del fatto che dovevo chiedere il permesso anche per andare in bagno e che i miei attuali amici (quelli veri) risalgono a quell’epoca. Così, tanto per dare un’idea di  che bizzarro mondo era quello.

Per spiegare il knowledge management che io ho visto e sperimentato in pratica devo raccontarvi meglio come funzionava il tutto: c’era un grosso salone, in fondo al quale una responsabile governa il tutto, sotto ad un grande cartellone elettronico che riportava il numero di clienti in attesa, gli operatori connessi in quel momento e il tempo medio di conversazione. Dall’altra parte c’eravamo noi, gli operatori, ripartiti in grandi tavoloni che contenevano, ciascuno, cinque o sei postazioni-operatore. Ognuno di noi aveva due operatori a fianco e due operatori di fronte, come in una scacchiera.

Le chiacchiere tra noi erano, ovviamente, a singhiozzo, scandite dalle diverse chiamate dei clienti. Eppure, proprio la necessità di dire qualcosa di significativo in cinque secondi rendeva la scelta delle nostre parole attenta e misurata: era come se il ritmo che il lavoro imponeva alla nostra conversazione creasse una nuova forma di comunicazione, con le sue pause, i suoi crescendo e diminuendo, i suoi momenti topici, e rendesse prezioso ogni secondo che riuscivamo a strappare al tempo standard di conversazione standard con il cliente standard. Per quanto ne so è ancora così.

Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare del knowledge management, che a quel tempo non esisteva nel nostro vocabolario e che, pure, agivamo inconsapevolmente. Ogni tavolone aveva, infatti, una specie di quaderno ad anelli, unto e bisunto, che si chiamava “varie”, e riportava tutte le ricerche “difficili” all’interno del data-base per estrarre dei numeri di telefono che non sarebbero mai apparse con le chiavi di ricerca fornite dai clienti: enti, associazioni, ospedali, case editrici e così via.

Quel quaderno era alimentato dagli stessi operatori che, nelle loro ricerche “euristiche” erano riusciti, dopo molti tentativi, ad individuare i numeri giusti. Era il risultato di una ricerca collettiva, che ciascuno aggiornava sulla base della sua pratica quotidiana. Ogni tanto qualcuno trovava un risultato interessante e lo scriveva sul quaderno. Il quaderno, poi, veniva aggiornato dai responsabili di sala per metterlo a disposizione di tutti.

Ogni nuova versione era quindi il sedimento di innumerevoli ricerca nel nostro assurdo data-base, fotocopiate e cristallizzate in un prodotto a disposizione di tutti. Nessuno imponeva questa pratica: era solo la generosa e spontanea iniziativa di un’intelligenza collettiva che aveva paura di pronunciare il suo nome.

Nono so se, dopo tredici anni, esista ancora il “Libro delle varie”: So solo che, quando parlo di knowledge management, penso per prima cosa a quella esperienza.